EDITORIALE
di Beno A volte mi chiedo cosa penserebbe mio nonno Silvio del mondo del 2023, lui che se n'è andato nel 2006 dopo esserne stato spettatore per 96 anni. Mi domando anche quali sentimenti provasse nell'autunno della sua vita, constatando inerme il disinteresse verso le fatiche fatte dai vecchi per tenere al meglio i campi, i frutteti, le vigne, i boschi, i prati e gli alpeggi, risorse da cui per secoli è dipeso il sostentamento delle famiglie valtellinesi, un patrimonio concreto tramandato di generazione in generazione. Se vedesse la legna lasciata a marcire a bordo strada, i prati comodi non più sfalciati o trasformati in capannoni, i campi più fertili andare a spine o gli alpeggi capaci di ospitare centinaia di capi abbandonati. Semplice: gli prenderebbe un colpo!
Non so come uno della sua generazione, che aveva piena consapevolezza dei limiti umani, potrebbe affrontare il mondo di oggi in cui scienza e tecnica sono diventate le nuove incontestabili religioni («Scienz'armata e cemento» l'arguta sintesi di Giovanni Lindo Ferretti nella canzone in cui denuncia la trasformazione della terra in «tabula rasa elettrificata»).
Sorriderebbe, avrebbe preoccupazione o rabbia nell'osservare l'uomo ibridarsi con le macchine e divenire pertanto inabile a svolgere autonomamente anche le mansioni più banali, come l'orientarsi in montagna?
Forse il nonno, sempre prudente dinanzi alle novità, ha lasciato a me l'onere di inorridire: il suo tempo, volgendo al termine, l'ha graziato.
Sono spaventato da quello che potrebbe essere tra pochi anni. A volte vorrei che il mio tempo non andasse oltre. Vorrei poter dire come il marchese di Custine in Arca Russa: «Lei vada, io resto qui. Vada, vada pure.» E fermarmi nell'epoca storica in cui ho tutti i miei riferimenti, o almeno non li sento troppo lontani. Ma il film di Sokurov del 2002 descrive un sogno: non è possibile né viaggiare nel tempo, né tantomeno ancorarsi alla propria epoca. Tuttavia è almeno possibile provare ad opporsi alla sommaria e acritica cancellazione del passato.
Inevitabile lo scontro coi difensori del dogma del progresso a tutti i costi, che per liquidarlo accusano l'avversario di appartenere a qualche anacronistica e stereotipata categoria di folli inetti al ragionamento. È ad esempio quello che ha fatto Antonio Polito nell'editoriale di propaganda bellica del 23 febbraio sul Corriere della Sera, dove ha delegittimato il pensiero di chi è insofferente «per la modernizzazione, per la sua velocità onnivora, per la sua pervasività tecnologica» o è convinto che «il valore dei popoli non sia dato dal loro successo economico ma dalla loro unità mistica, perché le società non sono meccanismi ma organismi, e quindi anche se più povere possono essere rese più felici dal rispetto della tradizione, dalla valorizzazione della comunità e da una guida carismatica».
E per voi? Cosa dà valore a un popolo, a una persona, a una forma di vita su questa terra?