È il 23 maggio, ho quasi finito di impaginare la rivista e ricevo da Simone l'inaspettata notizia della scomparsa del Cesare, il pastore dell'alpe Ron. Un banale incidente mentre tagliava piante, lui che per realizzare quella strada da brivido che da Massarescia porta su a Ron aveva lavorato in bilico con lo scavatore su un versante ripidissimo a quasi m 2000. «Gli è caduto addosso un muretto. L'incidente non era parso inizialmente grave, poi - mi dicono - forse a causa di un'emorragia, Cesare è morto.»
Quasi subito però la sciocca curiosità sulla dinamica dei fatti scema e precipita nello sconforto. Mi rendo conto che con Cesare se ne va un uomo singolare, un gigante buono che ostinatamente faceva il pastore alla vecchia maniera: pochi capi e nutriti solo a fieno, seguendo i ritmi della Natura. In questo viver lento e senza pretese lui aveva trovato la sua pace e in questa pace voleva vivere.
Per molte estati quando lui era a monte, anche io ero sullo stesso monte. Lui col bestiame, io per allenarmi. Lui a Ron, io a Campo. E spesso ci si veniva a trovare, vuoi per prendere il latte per la colazione, vuoi per lo squisito burro, vuoi per sentire un'altra voce nella solitudine della montagna o mangiare qualcosa assieme. Tante volte il mio allenamento della sera consisteva nel salire a Campondola e di lì traversare verso Ron. Aggirata la costa del monte sentivo il Cesare fischiare e urlare per richiamare le mucche in stalla. Gli facevano eco i suoi due cani, a cui seguivano i miagolii dei gattini che portava su in baita. Questi sapevano che presto sarebbe toccata loro una razione di latte, sebbene non avessero svolto il loro compito di cattura-topi.
Quando mi avvicinavo un po' di più lo vedevo camminare fiero nei pascoli con un grosso bastone, seguito ordinatamente dal manipolo di vacche.
Così tutti i giorni, così come faceva suo padre Oreste, così come, forse, avrebbe voluto un giorno facesse suo figlio Sebastiano.
Quel rito era per noi che assistevamo una certezza che avevamo l'illusione sarebbe stata immutabile nei tempi, come il sorgere e il tramontare del sole.
Nel tepore della stalla lo guardavo mungere mentre mi raccontava le usanze dell'alpe, dei libri che aveva letto e talvolta delle difficoltà che incontrava nel fare il suo mestiere. Eh già, perché come se non fosse già dura abbastanza tirare a campare con pochi animali e una pastorizia tradizionale ci si mettevano pure i controlli sanitari, i cui esecutori talvolta lo costringevano ad adeguamenti a dir poco bizzarri per il luogo remoto che è Ron.
Qualcuno un giorno gli aveva detto che voleva vedere sparire l'allevamento eroico. La cosa mi aveva fatto indignare. Avrei voluto scriverne sulla rivista, ma il Cesare mi aveva chiesto di non fare nulla perché parlarne avrebbe potuto generare ripicche.
Poi c'era stata la storia del matrimonio. Il matrimonio di un ragazzo che lo aiutava. Come dono di nozze Cesare aveva donato dei formaggi per il ricevimento. Accadde che i commensali cominciarono a stare male, vomitando come in un film splatter. I quotidiani locali armarono le penne dei più ignoranti tra i loro aguzzini e ne saltarono fuori articoli in cui si insinuava che era colpa del formaggio, bollando così i suoi formaggi che non venivano più comprati. Ne uscì che il formaggio non c'entrava niente, la colpa bensì era del vitello tonnato. Ma le rettifiche non fanno notizia e d'inchiostro ne scorse davvero poco per riaccreditarlo.
Però anche dopo questa brutta faccenda, si risollevò e riprese la sua attività. Ostinatamente.
Poi rischiò di vedersi privare dell'alpeggio di Ron a causa di un canone di affitto troppo alto da versare al Comune. Con l'interessamento dei Cederna, fu addirittura realizzato un cortometraggio a cui seguì una colletta per permettergli di tornare lassù.
Come riusciva a non piegarsi mai? Non era più semplice adattarsi a fare un mestiere riconosciuto secondo le modalità riconosciute?
Cesare era pastore per passione, non per denaro. Anzi dei soldi pareva disinteressarsene totalmente, suscitando anche i mormorii di coloro che ai soldi sono molto legati.
Era una persona sincera e forte, di quelle che nemmeno il vortice della società dei consumi era riuscita a omologare: un vero ribelle. Sapeva ciò che voleva, ovvero stare in pace coi suoi animali e ripetere i gesti secolari dei suoi antenati pastori. Niente avrebbe potuto impedirglielo.
Grazie a lui resisteva un piccolo baluardo dove la cultura di montagna non si era ridotta a mero folklore, ma era sincera quotidianità.
La scomparsa di Cesare non fa notizia come quella di una celebrità, ma è stata una tragedia ben più grave per la comunità a cui apparteneva: un punto di rottura definitivo nella sua storia. Con un'eccezionale partecipazione alle esequie, i pontaschi hanno dimostrato di esserne consapevoli.
La Valtellina sta diventando sempre più povera di personaggi così speciali e benvoluti, l' ultimo collante tra le comunità risucchiate nell'anonimato del consumismo e le peculiarità della loro storia secolare.
Venendo a me, ho la mente proiettata a quest'estate. Come in un incubo mi immagino a voltare la costa dietro Campondola e scendere a Ron dove nei pascoli inselvatichiti un vento afono accarezza gli steli d'erba. Sento la voce del Cesare che chiama le mucche scaldandomi il cuore. Ma presto mi rendo conto che questa proviene da dentro di me e tale consapevolezza mi stringe in una morsa di nostalgia.
Beno